Rebranding per il B2B in 5 semplici regole. Skip to main content

Il rebranding è il processo che include una serie di attività aventi come scopo quello di modificare a livello strategico la brand identity aziendale. Tali attività possono essere più o meno invasive e comprendono, in ordine crescente: la modifica della strategia di comunicazione, del design, del brand book, fino ad arrivare al cambiamento del logo o addirittura del nome di un’azienda.

Quale tipo di rebranding scegliere? In quali circostanze?

Dopo diversi anni di analisi e studio, nel 2006 il professor Laurent Muzellec, founder e director del Trinity Centre for Digital Business, e Mary Lambkin, professoressa di marketing presso l’University College di Dublino, hanno definito il rebranding come un processo divisibile in tipologie in base al grado di intensità del cambiamento avvenuto.

Secondo i due accademici, esistono due variabili attraverso le quali poter classificare un rebranding:

  1. L’Intensità dei cambiamenti estetici (logo, nome, slogan), definiti anche change in marketing aesthetics;
  2. L’intensità del cambiamento nel posizionamento sul mercato, definito anche change in positioning.

A seconda dell’importanza data alla prima o alla seconda variabile, il restyling attuato dall’azienda può essere di due tipologie differenti: rebranding proattivo o rebranding reattivo. Ma qual è la differenza? Quando ci si trova di fronte all’uno piuttosto che all’altro? Vediamo quali sono le loro caratteristiche.

Rebranding proattivo

Il rebranding proattivo prevede un cambiamento graduale che include modifiche attuate internamente dall’azienda ma con basso tasso di recepibilità da parte del consumer. In questo caso il restyling aziendale può avere diversi obiettivi, come: mantenere posizionamento, innovazione e aggiornamento nel proprio settore oppure mantenere coesione tra l’evoluzione del business e la brand identity del brand.

In questo caso il cambiamento non riguarda il totale ridimensionamento dell’offering ma, piuttosto, coincide con un suo ampliamento e quindi un consequenziale allineamento tra servizi offerti e brand image aziendale.

Un esempio lampante in questo senso è il rebrandig attuato, all’inizio del 2022, il marchio Hugo Boss: l’azienda, dopo quasi 50 anni, ha introdotto due loghi distinti con l’obiettivo di ampliare il proprio target e raggiungere meglio differenti segmenti demografici. Nello specifico, la linea Boss si è rivolta ai Millennials tra i 25 e i 40 anni utilizzando Instagram come principale canale di comunicazione; mentre la linea Hugo ha puntato alla Gen Z (under 25) e avrà TikTok come mezzo principale.

Rebranging reattivo

Il rebranding reattivo, invece, prevede un cambiamento rivoluzionario solitamente in risposta a eventi specifici, come:

  • L’acquisto o la fusione di un’azienda con un’altra;
  • Cambiamenti o innovazioni da parte di qualche competitor che impongono all’azienda una modifica del proprio business e della propria brand identity per mantenere il vantaggio competitivo;
  • Questioni di ordine legale o scandali aziendali che hanno danneggiato la brand reputation.

Restyling del brand. Quali i possibili rischi?

La scelta di attuare una strategia di rebranding è il più delle volte associata alla necessità di mutare la brand image aziendale, cioè la percezione che i clienti, i prospect o altri stakeholder hanno dell’azienda stessa. Tuttavia, sebbene le intenzioni siano delle migliori, non sempre il cambiamento della brand identity aziendale va a buon fine: molto spesso, infatti, capita di incontrare una certa resistenza al cambiamento stesso sia da parte del consumatore sia da parte dei dipendenti (questo di solito capita in realtà molto ampie e con diverse filiali).

Flop di rebranding: il caso GAP

Nel 2010 Marka Hansen, ex-presidente di Gap North America, ha presentato il nuovo logo descrivendolo come più contemporaneo e in linea con le nuove tendenze di mercato. Queste le parole dell’ex-presidente:

Sì alla scatola blu, ma portando però il marchio in avanti

Tuttavia, questo cambio di rotta non è stato ben accettato dai clienti, soprattutto quelli più affezionati al brand, che non hanno interpretato il restyling del logo allo stesso modo: gli aspetti criticati non hanno riguardato solo l’utilizzo del font Helvetica, ritenuto impersonale e ampiamente inflazionato, ma soprattutto la quasi eliminazione dell’elemento distintivo di GAP, cioè la scatola blu sminuita a un piccolo riquadro posizionato vicino alla scritta.

Dopo le diverse critiche e commenti ironici (più di duemila) postati sui vari social (in particolare Twitter), Louise Callagy, direttore della comucazione estera,  ha annunciato il ritorno al vecchio logo motivando la scelta in questo modo:

“At Gap brand, our customers have always come first. We’ve been listening to and watching all of the comments this past week. We heard them say over and over again they are passionate about our blue box logo, and they want it back. So we’ve made the decision to do just that – we will bring it back across all channel”.

Questo è l’esempio lampante di quanto un rebranding possa diventare fallimentare e scontrarsi con i gusti dei consumer se non minuziosamente studiato e organizzato. 

Linee guida per un rebranding efficace nel settore del B2B

Gli scopi di un restyling aziendale nel settore del B2B sono quasi sempre legati all’evoluzione dell’azienda stessa. Nella maggior parte dei casi, a cambiare in prima battuta è il marchio stesso mentre la modifica dell’offering si presenta come una mera conseguenza.

Secondo Donato Matturro, marketing & web comunication consultant, fare attività di rebranding nel settore del B2B è fondamentale ed è necessario che i founder di tali aziende abbiano il coraggio di cambiare pelle. Ma in che modo? Quali sono le linee guida da seguire per attuare un rebranding efficace?

  1. Vaglia il conosciuto. Ogni proposta di cambiamento deve essere sostenuta da approfondite e precise analisi dell’as is così da mettere in luce sia elementi positivi e non modificabili sia eventuali criticità.
  2. Intervista i consumer. Ad oggi, mercato e consumatore sono i due attori che dettano le regole del gioco. Quindi, al fine di mettere in atto un rebranding efficace è necessario compiere analisi sia qualitative sia quantitative. Andando ad analizzare prima i bisogni latenti e le opportunità di business; poi i bisogni percepiti dai clienti e la percezione che essi hanno del brand.
  3. Tieniti stretti i nemici. Per poter spiccare tra la folla è necessario conoscerla, in tal senso sarà fondamentale per l’azienda studiare l’as is dei propri competitor, analizzando sia gli eventuali errori commessi sia i casi di successo.
  4. Comunica il cambiamento.  É possibile affrontare questo step in modi e modalità differenti: la prima opzione è utilizzare un annuncio preventivo, cioè comunicare preventivamente l’ingresso in una fase di rebranding così da lasciare il tempo agli stakeholder di abituarsi alla nuova identity; la seconda opzione, invece, riguarda l’annuncio unico, puntando tutto sul colpo di scena e sull’effetto WOW. Entrambe le strade presentano dei pro e dei contro che andranno valutati a seconda del progetto e dei soggetti in gioco.
  5. Dai importanza ai commenti. L’unico modo che si ha per valutare e verificare che il rebranding è stato un successo sarà l’analisi dei feedback, sia quelli positivi ma soprattutto quelli negativi. Non accantonate le critiche ma studiatele e cercate di comprenderle per poter rendere i punti di debolezza, i vostri punti di forza.

Sercom cambia pelle! Cosa ne pensi?

Rebranding reattivo

Sercom ha avuto il coraggio di cambiare il proprio look! E che coraggio… negli ultimi 2 anni i cambiamenti sono stati palpabili! Grazie alle analisi di mercato effettuate in collaborazione con l’Istituto del Marketing Scientifico siamo partiti dal modificare il nostro core business: prima intercettando i bisogni latenti del mercato (profondamente cambiato in seguito al periodo pandemico), poi mettendo a terra una strategia che sapesse rispondere in modo agile e reattivo alle sempre più mutevoli percezioni dei consumer. 

Grazie al supporto di Mariano Diotto, Docente di neurobranding presso la IULM e founder di Neuromarketing Italia, ci siamo avvicinati al mondo delle Neuroscienze e del Neuromarketing imparando ad applicarlo al nostro settore: Il mondo del Gadget! 

Dopo un’approfondita analisi quantitativa, abbiamo progettato il Neurogadget: un oggetto o una meccanica in grado di stimolare positivamente la memoria dei consumatori, fidelizzandoli e aumentando il loro tasso di loyalty. Ci siamo immersi, in partnership con i ragazzi di Moonia, nel magico mondo degli NFT, del metaverso, della realtà aumentata… Insomma, a noi di Sercom piace sperimentare e evolvere!

Rebranding proattivo

Citando Donato Matturo, “nel B2B non si va quasi mai a “rebrandizzare” un prodotto di mass market, andiamo a rebrandizzare un’azienda e poi di conseguenza anche i suoi prodotti”.

Ecco, questo è quello che noi di Sercom abbiamo fatto… Prima abbiamo svecchiato il nostro core business e il nostro offering; poi ci siamo focalizzati sulla nostra brand identity: siamo partiti in sordina, modificando leggermente il logo e i colori rendendoli più freschi; poi abbiamo fatto il botto con il refresh del sito andando ad allineare le diverse pagine con il nostro attuale offering.

Noi siamo soddisfatti della strada che la nostra azienda e il nostro approccio al business hanno intrapreso. E voi cosa ne pensate? Lasciate un vostro feedback nei commenti!